Forse non tutti sanno che Leopardi aveva un legame molto forte con la città di Napoli

Forse non tutti sanno che Leopardi aveva un legame molto forte con la città di Napoli. Nella Biblioteca Nazionale sono conservati manoscritti inediti e tra questi: le “Operette morali”, i “Canti” e anche un menù per il Capodanno.

Nel 2018 si sono festeggiati i 200 anni della composizione lirica: “L’Infinito” che il Leopardi compose sul Monte Tabor di Recanati, meglio chiamato “il colle dell’Infinito.

Il Dott. Paolo Martino dell’Istituto Linguistico Campano (ILC) ha voluto omaggiare nella ricorrenza del compleanno, traducendo in napoletano, la poesia del grande poeta Giacomo Leopardi.

Un bellissimo regalo per chi ama leggere, e ascoltare, questa poesia immensa… come l’infinito…

 

L’aggio tenuto sempe dint’ ’o core

stu pizzo ’e muntagnella sulitaria

e st’arravuoglio ’e frasche ch’è nu muro

ca m’annasconne addó fernesce ’o mare.

Ma si m’assetto e guardo i’ me figuro

’na luntananza ca nun tene fine,

’nu silenzio ca mai nisciuno ha ’ntiso,

’na pace ’e Dio ca manco mparaviso.

Troppo pe’ n’ommo, quase fa paura.

E quanno ventulea mmiez’ a ’sti fronne

chillu silenzio ca me dà ’o scapizzo

cu ’sta voce d’ ’o viento se cunfronna

e me veneno a mente ’e ccose eterne

’nzieme cu chelle ca se so’ perdute

e penzo ’e tiempe ’e mo e ne sento ll’eco.

Cu ’o penziero me sperdo int’ ’o sprufunno

e doce doce me ne vaco ’nfunno..

Traduzione Paolo Martino

 

Voce Wanda Danzi Bellocchio

Oggi fa veramente freddo

Oggi fa veramente freddo. Un vento gelido che sferza sul viso e scompiglia i capelli. Cavolo. Oggi c’è  lo sciopero dei mezzi e io sono qui in attesa che ne passi qualcuno per ritornare a casa. Ce ne sono abbastanza. Però sono tutti pieni e non mi va di prenderli. Finalmente arriva, e insieme ad altri, salgo e mi accomodo. È abbastanza vuoto e già questo mi meraviglia. Molto meglio così. Sono sovrappensiero. Mi accorgo che il bus fa la strada della stazione mentre io sarei dovuta andare verso S. Pietro. “Forse è per la manifestazione che ci sarà oggi”, mi dico, e infatti ci sono già le camionette con i poliziotti pronti a fare che? E’ solo una manifestazione di donne; ma si sa che le donne sono più agguerrite degli uomini. Non si sa mai…

“Sarà una festa. I soliti balli e canti e qualche slogan contro il sistema ma poi niente di che.”

Eppure, avrei partecipato volentieri. Avrei potuto incontrare qualche compagna, ma sono troppo stanca e infreddolita.

Purtroppo, il bus mi lascia proprio alla Stazione Termini e capisco: ho preso l’82 anziché il 62…

“Wanda stai invecchiando, lo vedi che non puoi uscire da sola?…”

Prendo il 40, affollatissimo (in un giorno normale già è così figuriamoci in un giorno di sciopero). Ritorno indietro per Via Nazionale, piazza Venezia, Largo Argentina…

C’è la Feltrinelli. Sono tentata. Ci penso. Fa freddo. E poi ho ancora tre libri nuovi da leggere.

“Dai Wanda fai la brava, vai a casa.”

A metà percorso prendo un taxi. È bello abitare su un colle con il verde che ti circonda, ma ormai la salita è troppo per me e cerco di evitarla.

Il vento freddo è diventato ancora più freddo. Non ci ho pensato su due volte…

Ho tutti gli ingredienti e decido di premiarmi. Farò una quiche lorraine alla Wanda. Ed ecco care amiche la mia ricetta improvvisata. Per chi la volesse eseguire, questi sono gli ingredienti:

1 rotolo di pasta sfoglia,

300 gr di ricotta,

2 uova,

una confezione di panna da cucina,

4 cucchiai di parmigiano grattugiato,

200 gr. di piselli,

provolone della Sila a pezzetti.

Unire tutto il composto e farne un impasto cremoso. Stendere la sfoglia in una teglia con la stessa carta da forno, bucherellare il fondo e riempirlo con il composto. Ripiegare la sfoglia cercando di evitare la fuoriuscita del composto che deve essere come una crema. Per spennellare la sfoglia se non avete l’uovo potete utilizzare il latte sbattendolo prima con una forchetta per renderlo schiumoso.

In forno a 190 gradi ventilato per 40 minuti (questo poi dipende dal forno).

Buon appetito e, mi raccomando, copritevi bene.

Un bacio a tutte voi, care amiche mie, e anche a tutte le altre

 

Quando ho iniziato ad ascoltare musica?

Quando ho iniziato ad ascoltare musica? Non le canzonette, quelle sono state ascoltate, e cantate, sempre. Specialmente nell’adolescenza come tutte le ragazze di allora, e non solo.
Nella nostra casa si ascoltava la musica in radio. Il nonno era un cultore dell’opera e dell’operetta. Cose desuete. Oggi non si sa neppure cosa sia l’operetta. Ricordo ancora quante arie ci faceva ascoltare.
La radio. Allora c’era solo quella. C’era anche il grammofono di mio padre con i suoi dischi 78 giri. Si poggiava il disco sul piatto, si cercava di mettere la puntina nel primo solco, con delicatezza per non graffiarlo e si ascoltava in un muto silenzio. I dischi di mio padre suonavano Jazz, erano residui della venuta degli americani a Napoli dopo la cacciata dei tedeschi da parte dei napoletani. Lo penso io perché nessuno mi ha mai spiegato la loro provenienza.
La mattina era la voce squillante di zia Maria che riempiva le stanze man mano che venivano rassettate. Credo che sia stato questo che ci ha portati, noi piccoli, ad amare la musica: tutti i generi, senza distinzione.
Man mano che si cresceva altri oggetti arrivavano in casa per ascoltare la musica. Il primo fu il Geloso, che era un giradischi portatile, regalato a Maria Luisa da nostra madre. Eravamo adolescenti e il giradischi veniva con noi al mare, insieme ai 45 giri delle canzoni attuali. Appena lo si faceva funzionare ecco che venivamo circondate da ragazzi e ragazze della nostra età, se non più grandi. Allora gli stabilimenti non mandavano musica ma solo la voce di un uomo, che chiedeva aiuto per piccoli persi nella bolgia di bagnanti che affollavano il Lido.
Arrivarono poi i registratori, anche loro ingombranti ma molto funzionali e, quello fu un oggetto che aveva Gianni. Fu un giorno che stavamo insieme nella stanza da pranzo che mi chiese di registrare la canzone “Sapore di Sale”. Con noi c’era anche Tonino, un caro amico e compagno di studi di Gianni. Fu molto divertente e ne fui contenta: la mia voce mi piaceva ascoltandola.
Ma la musica mi ha aiutata molto nei primi anni del mio matrimonio. Vivevamo ancora a Napoli e la mia vita andava avanti con molta monotonia. Il passaggio da una vita lavorativa intensa ad una vita di “casalinga” non mi soddisfaceva. Per di più erano giorni cadenzati da lavori casalinghi. Fare la mamma e la moglie, in un periodo che alla donna si chiedeva solo quello, era proprio ciò che non accettavo. E allora mi rifugiai nella musica. Ogni momento della giornata la musica mi faceva compagnia nel far trascorrere il tempo. Era diventata il mio rifugio, il mio raccogliermi a sognare.
Anche i miei figli sono cresciuti amando la musica come me. Tutta la musica senza distinzione: la classica, l’opera, la musica contemporanea, il jazz e tutto ciò che poteva essere “musica”.
Oggi continuo ad ascoltarla. Riempie i miei giorni e la mia solitudine. Ancora una volta, mi viene in mente il mio amato nonno che ci ha accompagnati, con la sua passione, a viverla e ad amarla.

Perché la Musica si vive e si ama.

 

A Materdei c’era anche il Bolivar

Sì, a Materdei c’era anche il Bolivar, altro cinema rionale molto frequentato. Molto piccolo rispetto al Capitol. Piccolo con posti a sedere con poco spazio, le uscite di emergenza davano sulle scale che portavano a Calata Fontanelle. Un’uscita non proprio agevole. All’ingresso del cinema, e posizionato sul primo gradino di quelle scale, si trovava la bancarella della “rattata…”. Un nome strano con cui si chiamava il ghiaccio grattato e colorato con un liquido (rosso, verde) che oggi farebbe orrore provare. Eppure, durante i giorni più caldi tanti si fermavano a comprarla la … “rattata…”.

In quella sala vedemmo un film che avrebbe fatto la storia del cinema “Via col Vento”. Erano gli anni ’50. Ricordo la folla stipata fuori dal cinema per la prima proiezione. Entrati alle 15 e usciti che era ormai notte. Come sempre c’era la nonna con noi.

Oggi leggo che è diventato un teatro: Teatro Bolivar, anche importante per la zona. Il cinema era rimasto chiuso per troppi anni ma, è anche vero, che era veramente bruttino. Mi spiace che la storia di questo cinema, così importante in quegli anni per il quartiere, non sia menzionata nelle pagine dell’attuale Teatro Bolivar. Anche perché è interessante pensare che, quel quartiere uno dei centri più antichi di Napoli, aveva al suo interno due cinema: Capitol e Bolivar, più un piccolo cinema Il Materdei (oggi Cine Club) all’inizio della Calata Fontanelle e anche sale parrocchiali che ogni domenica proiettavano per noi ragazzi.

 

“Preparatevi che oggi andiamo al cinema” …

Questa frase risuonava almeno una volta alla settimana. Poteva essere il nonno oppure la nonna. Noi ragazzini eravamo felici. Ci piaceva andare al cinema. Tutto ciò che veniva proiettato era per noi di volta in volta: sorpresa, avventura, paura, sentimento, divertimento e tutto ciò che un film può suscitare nella mente e nella fantasia dei bambini. A volte erano film impegnativi per noi ma, i nonni erano molto avanti per il tempo e non si creavano problemi e noi con loro.
Il nostro cinema era il Capitol. Situato nel Nuovo Rione Materdei aveva una Sala con mille posti a sedere. Le sedie in legno ribaltabili e un enorme soffitto apribile che d’estate diventava il nostro condizionatore.
La nonna era molto amica della cassiera. Arrivavamo in quattro ma si pagava in due: la nonna e uno di noi tre. La maschera vedeva e non vedeva. Prendeva i biglietti li staccava e ci faceva entrare. Arrivavamo sempre per il primo spettacolo e restavamo buoni a guardare anche il primo tempo della seconda programmazione. Andare al cinema era un modo per tenerci buoni per un paio d’ore; per non farci stare in giardino a fare solo danni.
C’era un metodo che la nonna usava per tenere tutto sotto controllo. Faceva sedere Gianni al primo posto della fila, poi c’ero io, mia sorella Maria Luisa e, infine, la nonna che in questo modo non faceva sedere nessuno accanto a noi. La sua protezione continuava anche nel buio della Sala.
E poi, arrivava il momento cruciale dei panini. Allora non c’erano i Mac Donald. L’unico che attraversava la Sala, era un ragazzo con un grosso contenitore di legno attaccato al collo, dove vi erano esposte buste di patatine e gelati confezionati.
La nonna aveva una borsa di pelle nera con, al suo interno, i nostri panini preparati con molta cura e avvolti singolarmente nella carta oleata. Ed era allora che si sentiva un diffuso… sh… shhh… shhh… mentre la poverina cercava nel buio di capire quale panino fosse per noi. Tutti diversi!!!
Con il nonno era diverso. Non aveva una borsa e non amava restare nel cinema anche dopo la prima programmazione. Niente panino, però, dopo la proiezione all’uscita dal cinema, ci comprava il gelato come premio.
Il gelato ha una storia a parte. Il nostro bar preferito era il “Barriciello”. Non ricordo se questo fosse il nome vero del bar oppure soprannominato così perché si scendevano tre gradini. Ma era veramente molto piccolo. In quegli anni il nostro amato zio Salvatore, fratello di mia madre, era uno dei baristi e faceva un gelato insuperabile. Entravamo nel bar con un sorriso sul volto che faceva capire tutto. Il nonno pagava per i nostri coni che, grazie alla magia di zio Salvatore, diventavano tre cupole.
E, con quel cono immenso, il volto radioso, ci incamminavamo verso casa.
Ormai la giornata era finita. Potevamo andare anche a dormire e, sognare: il cavaliere indomabile, rivivere una storia romantica.
Almeno per me…

Il Cuore e l’Africa

È domenica e Margareth si è recata alla funzione religiosa. Da casa sua si sentono in lontananza i canti e i suoni che accompagnano la Messa. Al suo rientro Margareth ci porta a visitare Mombasa; con noi Grace e una volontaria di Amref. Il tragitto è lungo ma stavolta prendiamo la strada nazionale quella che va da Mombasa a Nairobi. È una strada asfaltata e vi incontriamo tanti camion che trasportano merci. Sono modelli vecchi e dalle loro marmitte buttano fuori del fumo nero impregnando l’aria di cattivo odore. La città è caotica, alcuni negozi sono aperti e intorno a noi sfrecciano tanti pullmini pieni di gente.

Non riesco a capire dove vadano tutte quelle persone e a fare cosa, le strade sono intasate come il centro delle nostre città nell’ora di punta.

La nostra giornata di vacanza prosegue con l’attraversamento sul ferryboat dell’Oceano Indiano. Abbiamo anche provato a visitare il Parco Mama Village dove vi sono ospitati grossi coccodrilli ma siamo capitati nel giorno di chiusura al pubblico e abbiamo optato per il mercato del pesce.

A sera torniamo a Kaloleni e dopo aver assaggiato dei nuovi piatti a casa di Margaret; rimaniamo a parlare fino a tardi Paola, Francesco ed io.

Dal “Il cuore e l’Africa”

di Wanda Danzi Bellocchio

Il rito del sabato anni 50

È sabato e il profumo del brodo si sparge per tutta la casa. È un profumo avvolgente, che da calore e sa d’inverno.
Come sempre la nonna si è alzata prestissimo. Ma andrà mai a dormire? Per me vive in cucina e se non è ai fornelli sta lì seduta accanto al focolare con il suo vestito di casa e lo scialle sulle spalle. Legge, si intrattiene con zia Maria ed è sempre lì. Quello è il suo regno.
Per la nonna cucinare è un rito che si ripete per ogni settimana. È sempre lo stesso. Ogni giorno ha il proprio pranzo, non si cambia e noi già sappiamo cosa ci aspetta. Il lunedì pasta e fagioli; il martedì la pizzaiola, il mercoledì minestra che sia pasta e lenticchie o pasta e patate, non ci si può sbagliare. Poi il giovedì quasi sempre maccheroni e la carne con le patate. Un sughetto veramente buono.
Mi piace tanto. Il venerdì minestra e pesce. Al sabato c’è il rito del brodo. Sempre ogni sabato si cucina il brodo. Io sono una ragazzina che ama mangiare e quando non vado a scuola invece della zuppa di latte, preferisco farmi preparare dalla nonna un po’ di pane del giorno prima con due mestoli di brodo. È il premio per essere stata buona quella settimana e non ho fatto disperare la nonna e zia Maria per fare i compiti. La domenica è un giorno di festa e il profumo del ragù è forte e penetrante. Loro due, la nonna e zia Maria, sono in cucina a girare e rigirare quel sugo denso e rosso scuro. Da quante ore sta lì a “pappuliare” (sobbollire)? Chissà.
Il lunedì si ricomincia di nuovo con gli stessi primi. Si mangia molto pesce azzurro, specialmente le famiglie numerose perché è veramente a buon mercato.
Oggi ho eseguito il rito del brodo al sabato e la mia casa profuma di odori. Carne, carota, cipolla, sedano, prezzemolo, patata e la peperna che dà un profumo particolare al brodo.
Tranquille la peperna non è altro che la maggiorana e nel mazzetto napoletano non può mancare. Non sarebbe brodo, altrimenti.
E con queste disquisizioni e ricordi, vi abbraccio amiche e amici miei, virtuali e no.
Buon sabato

 

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